La divinità della Luna, della Terra, dei mari è un retaggio ancestrale alimentato dai più disparati nomi e funzioni della Grande Dea mediterranea o Grande Madre: Potnia, la Possente (potnia theron è un epiteto attestato anche nelle tavolette micenee); Eurinome, colei che abita vasti spazi, in greco antico; Belili, la dea sumerica della luce e controparte femminile del dio solare Bel oltre che sorella del pastore Dumuzi, dio mortale resuscitato ogni equinozio autunnale dalla sposa Inanna, corrispondente alla babilonese Ishtar – poi Astarte nell'area fenicia – e all'egizia Iside; o una summa delle prerogative di Gaia-Gea (in gr. la Terra stessa), di Cibele anatolica, di Demetra con la figlia Core (la Fanciulla per antonomasia, Persefone che partecipa degli onori tributati alla madre nei Misteri eleusini), di Afrodite, Artemide, Athena, Hera... Anche la venerazione per certe sante cristiane appare come il residuo riassorbimento di remoti culti pagani.
Robert Graves nella sua guida intitolata "I miti Greci" confronta diversi racconti filosofici relativi alla creazione, uno dei quali è presente in Ovidio (si accenna a una divinità apparsa nel Caos, entità che separò la terra dal cielo: Dio di Tutte le Cose, chiunque fosse poiché taluni lo chiamano Natura) e ricalca l'epopea assiro-babilonese di Gilgamesh, diffusasi in Grecia con un significato ambiguo e in epoca più tarda rispetto a un altro mito pre-ellenico (ne saranno eredi anche gli Ebrei nel racconto cananeo della Creazione: la Genesi), il mito pelasgico che citerò dalle prime pagine del manuale suddetto:
«All'inizio Eurinome, Dea di Tutte le Cose, emerse nuda dal Caos e non trovò nulla di solido per posarvi i piedi: divise allora il mare dal cielo e intrecciò sola una danza sulle onde. Sempre danzando si diresse verso sud e il vento che turbinava alle sue spalle le parve qualcosa di nuovo e di distinto; pensò dunque di iniziare con lui l'opera della creazione. Si voltò all'improvviso, afferrò codesto Vento del Nord e lo soffregò tra le mani: ed ecco apparire il gran serpente Ofione. Eurinome danzava per scaldarsi, danzava con ritmo sempre più selvaggio finché Ofione, acceso di desiderio, avvolse nelle sue spire le membra della dea e a lei si accoppiò. Ora il Vento del Nord, detto anche Borea, è un vento fecondatore; spesso infatti le cavalle, accarezzate dal suo soffio, concepiscono puledri senza l'aiuto di uno stallone. E così anche Eurinome rimase incinta.
Subito essa, volando sul mare, prese la forma di una colomba e, a tempo debito, depose l'Uovo Universale. Per ordine della dea, Ofione si arrotolò sette volte attorno all'uovo, finché questo si schiuse e ne uscirono tutte le cose esistenti, figlie di Eurinome: il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la terra con i suoi monti, con i suoi fiumi, con i suoi alberi e con le erbe e le creature viventi. Eurinome e Ofione si stabilirono sul monte Olimpo, ma ben presto Ofione irritò la dea perché si vantava di essere il creatore dell'Universo. Eurinome allora lo colpì alla bocca con un calcio, gli spezzò tutti i denti e lo relegò nelle buie caverne sotterranee.
La dea poi creò le sette potenze planetarie e mise a capo di ciascuna di esse un Titano e una Titanessa: Tia e Iperione al Sole; Febe e Atlante alla Luna; Dione e Crio al pianeta Marte; Meti e Ceo al pianeta Mercurio; Temi ed Eurimedonte al pianeta Giove; Teti e Oceano a Venere; Rea e Crono al pianeta Saturno. Il primo uomo fu Pelasgo, capostipite dei Pelasgi; egli emerse dal suolo d'Arcadia...»
L'autore prosegue con una sintesi dei miti omerico, orfico, olimpico della creazione e, infine, rammenta in nota le tavolette d'argilla ritrovate nell'antichissima città mesopotamica di Ur (databili all'ultimo secolo del 2000 a.C.), le cui incisioni in scrittura cuneiforme illustrano l'Epopea di Gilgamesh, mitico re dei Sumeri:
in senso non chiaro e controverso «alla splendida madre dell'abisso si attribuisce il merito di aver creato ogni cosa (Aruru è uno dei molti appellativi della dea) e il tema principale dell'epopea è la ribellione degli dei del nuovo ordine patriarcale contro l'ordine matriarcale. Marduk, il dio della città di Babilonia, riesce a sconfiggere la dea che lo affronta sotto la forma del serpente marino Tiamat; Marduk annuncia poi spavaldamente che egli e nessun altro ha creato le erbe, le terre, i fiumi, gli animali, gli uccelli e il genere umano. Anche il dio Bel (poiché Bel è la forma maschile di Belili, la dea-madre sumerica) si era vantato di aver sconfitto Tiamat, attribuendosi il merito della creazione. Il passaggio dal matriarcato al patriarcato pare si verificasse in Mesopotamia, come altrove, in seguito alla ribellione del principe consorte cui la regina aveva delegato il potere esecutivo permettendogli di servirsi del suo nome, delle sue insegne regali e degli oggetti del culto.»
Recensendo l'opera omnia di Graves, il filologo classico Gioachino Chiarini (autore fra l'altro di "Odisseo. Il labirinto marino", che a suo tempo gustai molto, nonostante fosse lettura obbligatoria per un esame) analizza ancora la figura della Grande Dea, nella sua manifestazione di Dea Bianca.
[Per uno schema riassuntivo invito a controllare la voce Belili da me compilata in Wikipedia.]
[Recensione di Chiarini, G., L'Indice 1993, n.10]
«Nel 1929 Robert Graves rompe con la prima moglie, con gli amici, con tutti e va a vivere a Deya, piccolo paesino montano nel nord dell' isola di Maiorca. Quello stesso anno escono le sue memorie di guerra, dal titolo significativo di "Good-Bye to All That (Addio a tutto questo)", tra i capolavori dell'antimilitarismo moderno. La sua vocazione è la poesia: figlio di poeta, ha pubblicato i suoi primi versi nel 1914, a diciannove anni (si veda la raccolta "Poems 1914-1926", del 1927; per la produzione successiva, indicativamente, l' antologia "Lamento per Pasifae", a cura di Giovanni Gualtieri, Guanda, Parma 1964 = 1991). Per continuare a fare il poeta si mantiene con la prosa: i romanzi più famosi sono "I Claudius (Io, Claudio)" e "Claudius the God and His Wife Messalina" (in it. Il divo Claudio), entrambi del 1934. Ma i tempi sono inquieti. La guerra civile spagnola lo costringe a un temporaneo esilio. Poi, dopo aver girato per gli Stati Uniti e l'Europa, è sorpreso dallo scoppio della seconda guerra mondiale in Inghilterra.
Qui Graves, lavorando a un romanzo sull'impresa degli Argonauti, giunge alla scoperta della Dea Bianca, alla scoperta del suo potere un tempo immenso e palese, oggi ridotto alla clandestinità, perfino negato, ma pur sempre vivo e operante. Nell'età neolitica, poi anche per buona parte dell'età del bronzo, le culture mediterranee dei tre continenti avevano costituito una realtà sostanzialmente unitaria, retta da credenze religiose omogenee basate sul culto della Dea Madre.
Prima che Baal, Zeus, Jahvèh e i loro equivalenti prendessero il potere, a comandare in cielo, in terra e negli inferi era stata la Grande Madre, dea una e trina della Nascita, della Fecondazione e della Morte, signora della Natura, padrona del Tempo. è la dea dei campi e dei boschi, delle acque e degli animali. È la dea dell'eros travolgente e del terrore senza fine, della gioia sfrenata e del dolore che non può esser detto. Afrodite, Era e Atena - quelle del "giudizio di Paride" - non sono all'origine tre dee distinte, bensì tre aspetti dell'unica Dea, la Triplice, colei che genera, ama e uccide. Essa è la Luna (Artemide), il cui volto luminoso si mostra per intero, in parte o per nulla, ma senza mai variare d'intensità nel corso dell'anno, al contrario di quanto fa il Sole (Apollo), la cui luce si ravviva progressivamente sino al solstizio d'estate per poi tornare per gradi ad affievolirsi, e il rapporto tra i due è quello della Terra col Grano, di Isthar con Tammuz, di Iside con Osiride. Ma essa è anche Belili (la Dea Bianca dei Sumeri), Astarte, Demetra, Cardea, Leucothea, Diana...
La Dea Bianca dai tre volti e dai molti nomi è anche l'unica vera Musa d'ogni poesia. E la poesia non può avere per oggetto che un unico tema, il Tema per eccellenza, quello che canta "la vita, la morte e la resurrezione dello Spirito dell'anno, figlio e amante della Dea". Il vero poeta deve rivivere tale esperienza, ispirarsi alla Donna che lo ha generato come poeta e amarla fin quasi ad esserne distrutto. Dopo che, nella II metà del II millennio a.C., il matriarcato ha ceduto il potere al patriarcato e il dio Padre ha scalzato dal trono la dea Madre, sostiene Graves, la Musa (le nove Muse non sono che una successiva divinizzazione delle "nove sacerdotesse orgiastiche della dea-Luna") ha forzatamente ceduto il titolo di divinità ispiratrice della poesia ad Apollo: ma Apollo, ex demone di una Confraternita totemica del Topo che "ha fatto carriera con la forza delle armi, con il ricatto e con la frode, sino a diventare patrono della musica, della poesia e delle arti", odia il Femminile, e la poesia di buona parte della tradizione occidentale è una poesia decaduta e "corrotta".
Ciononostante, e per fortuna, il Tema non è andato completamente smarrito: la poesia a esso ispirata è dapprima sopravvissuta nei culti misterici di Eleusi, Corinto, Samotracia e in altri luoghi mediterranei, e quando i misteri sono stati soppressi dal cristianesimo, ha continuato ad essere tramandata, a seguito di un complesso gioco di migrazioni e contatti tra le culture mediterranee e quelle nordiche ("iperboree"), nei collegi poetici dell'Irlanda e del Galles. Albina ("Dea Bianca") è tra l'altro "la dea dell'orzo che diede il [suo primo] nome alla Britannia": Albione.
Graves sembra sottintendere di esser stato chiamato a scoprire questa complessa e abbagliante verità perché riunisce in sé tre caratteristiche essenziali: è un poeta, nelle sue vene scorre (per parte di suo padre) sangue irlandese; si è scelto come patria d'elezione un'isola del Mediterraneo (un tempo probabilmente devota alla Dea Bianca: cfr. Diodoro Siculo, Biblioteca storica V 17-1X). E lui stesso fornisce gli elementi per ricostruire le circostanze della sua iniziazione ("Poscritto", 1960 all'edizione definitiva della "Dea Bianca", del 1961).
È l'anno 1944: a Galmpton, villaggio del Devon, Graves lavora a un romanzo sull'impresa degli Argonauti. Tiene a portata di mano poeti, scrittori ed eruditi antichi, saggi moderni di storia antica, di geografia antica e moderna, di antropologia e storia delle religioni, una ricca scelta di poeti inglesi, gallesi, irlandesi. Nello studio Graves tiene alcune statuette di bronzo che ha comperato a Londra. Si tratta di pesi per la polvere d'oro - gli ha spiegato l'antiquario che glieli ha venduti - provenienti dall'Africa occidentale. Hanno forma, per lo più, di animali: ma c'è anche un gobbo che suona il flauto e persino una scatola per custodire la polvere d'oro. Graves lavora sotto lo sguardo - apparentemente innocuo - dei piccoli animali di bronzo e del gobbo col flauto, che ha messo a sedere sulla scatola. Egli saprà solo più tardi che il gobbo rappresenta - è - un araldo al servizio della regina madre di un regno degli Akan, ignora che ogni regina madre degli Akan si ritiene un'incarnazione della dea-Luna Ngame, una dea "dai tre volti" come la dea Madre neolitica, e che i simboli che ornano il coperchio della scatola su cui ha innocentemente posto il gobbo col flauto significano: "Nessuno più grande, nell'universo, della triplice dea Ngame". Graves non sa ancora, a maggior ragione, che gli Aken erano dei Berberi libici che nell'XI secolo d.C. erano migrati dal Sahara al Niger, dopo aver avuto sicuri contatti con la cultura greca, alla quale erano noti come Garamanti.
Graves non sa nulla di tutto questo, ma la magia di quegli occhi puntati su di lui lo costringe ad aprire le "Storie" di Erodoto, a scorrere avidamente le pagine della celebre digressione geografica ed etnografica (IV 168 sgg.) in cui si parla, tra l'altro, dei popoli che vivono intorno alla palude Tritonide, una delle tappe più difficili del viaggio di ritorno degli Argonauti (IV 179 sgg.), in cui si parla anche - un semplice caso? - proprio dei Garamanti, ma soprattutto si identifica con la dea libica degli Ausei (Neith) la greca Athena (IV 182.2).
Graves è colpito da questo particolare, si mette a cercare. Ben presto ai nomi di Neith e di Athena se ne aggiungono molti altri e dietro a Iside, Isthar, Belili, Rea, Demetra, Cardea mostra il suo vero volto la Triplice Dea, la Gran Madre, la Suprema. Nel romanzo che sta scrivendo a tappe forzate acquista crescente importanza una congetturale Dea Bianca venerata dai Pelasgi sulle pendici del monte Pelio, in Magnesia, non distante da Iolco, punto di partenza per il viaggio di Giasone e degli altri Argonauti alla ricerca del vello d'oro. Ma il gobbo col flauto incalza, la ricerca della Dea Bianca deve continuare nelle terre del Nord.
Entrato in una sorta di trance divinatoria, Graves affronta e, a suo giudizio, risolve l'enigma della misteriosa "Battaglia degli alberi", una poesia, o meglio un gruppo di poesie appartenenti al gallese "Romanzo di Taliesin" (tramandato da un manoscritto del XIII secolo) e che non sembrano avere né ordine né significato. Egli taglia, corregge, aggiunge, sposta, ricuce, azzarda le analogie più impensate pescando a piene mani sia dalla poesia celtica che dall'intera tradizione greco-giudaica, si esibisce in etimologie e anagrammi, risolve indovinelli, e alla fine spiega: la "Battaglia degli alberi" racconta in chiave l'evento religioso più importante della Britannia precristiana, la vittoria (da collocarsi a un dipresso nel IV secolo a.C.) di un nuovo sistema religioso sul precedente. Un dio del frassino e un dio del salice sconfissero un dio dell'ontano e un suo alleato. Dietro ai nomi degli alberi - e collegato col culto degli alberi - vi è un particolare alfabeto, che può essere confrontato e spiegato con altri alfabeti, sia celtici che dell'intera tradizione mediterranea. E dietro ai vari alfabeti ci sono i nomi segreti degli dèi-Padri che hanno preso il potere nelle varie culture. E dietro a tutto c'è ancora Lei, la Dea Bianca, con i suoi riti e i suoi miti e la sua inquietante e pur necessaria presenza nella storia del mondo.
Graves scrive dunque di getto la prima parte del saggio che esce nel 1948 col titolo definitivo di "The White Godless. A Historical Grammar of Poetic Myth (La Dea Bianca. Grammatica storica del mito poetico)": l'ultima edizione, sulla quale è ora basata l'ottima versione di Alberto Pelissero, è quella, già citata, del 1961. è un libro affascinante e al tempo stesso irritante, pieno zeppo di paradossi esasperati e di ipotesi indimostrabili date per sicure, ma anche fitto di verità o comunque di spunti di straordinario acume che sarebbe sciocco sottovalutare. È, soprattutto, un libro disseminato di cose divertenti, fitto di enigmi spavaldamente affrontati e risolti: che nome aveva assunto Achille allorchè si nascose tra le ragazze di Sciro? oppure: chi erano le Sirene? e che cosa avranno detto nel loro fascinoso canto a Ulisse? e ancora: che cosa significa l'episodio del "nodo di Gordio"? E così via, infinitamente.
Quanto alla conquista del Vello d'oro, Graves, dopo la vertiginosa avventura "celtica", può tornare alla Dea Bianca da cui era partito, e termina rapidamente il romanzo: "Hercules, my Shipmate", "Ercole, mio compagno di bordo", 1945, ora piacevolmente tradotto in italiano, col titolo "Il vello d'oro". Il romanzo vuole essere, nelle intenzioni semiserie dell'autore, un romanzo storico e possiede effettivamente il piglio e l'intonazione di un moderno romanzo d'avventura. È di fatto un libro di piacevolissima lettura, pieno di umori e di umorismo, dotto e leggero, nel quale Graves non si limita a utilizzare le fonti antiche, ma si diverte a emularle, gareggiando con Erodoto nelle descrizioni dei popoli più remoti e strani del Mar Nero o delle coste africane, o con Teocrito nella descrizione dell'incontro di pugilato tra Polluce e il re Amico, o ancora e soprattutto con Apollonio Rodio nella rappresentazione dei pensieri e dei sentimenti che agitano, anzi squassano sin quasi all'autodistruzione Medea, la principessa e maga che si innamora di Giasone e, tradendo i suoi, determina il successo degli Argonauti.
Nel 1955, che vede, tra l'altro, l'uscita della monografia sulla Gran Madre di Erich Neumann, Graves pubblica, a fianco del più celebre e ponderoso lavoro sui Miti greci, un altro romanzo d'argomento greco, questa volta collegato con l'Odissea: "Homer's Daughter", ora volto in italiano come "La figlia di Omero". Non si tratta di una vera "figlia di Omer", bensì di una "figlia onoraria di Omero": di una donna vissuta un paio di secoli dopo il cantore dell'Iliade e che fu poetessa così grande da superare con l'Odissea ogni altro "figlio di Omero", riuscendo a far includere il suo poema nel canone delle opere omeriche. Samuel Butler, in un saggio del 1896 ("The Authoress of the Odyssey "), aveva proposto di attribuire l'Odissea a una poetessa trapanese, circoscrivendo l'intero peregrinare di Ulisse allo scenario siciliano. Graves tradusse quell'ipotesi critica in un romanzo, che immaginò raccontato in prima persona da Nausicaa stessa, la "figlia di Omero" del titolo. Principessa degli Elimi di Erice (popolo misto siculo-troiano), figlia di re Alfeide, Nausicaa è una donna intelligente e coraggiosa, ricca di sensibilità e di passione, e profondamente devota, com'è ovvio, alla Dea Bianca, qui detta Cerdo. Essa si trova al centro di una serie drammatica e rocambolesca di avvenimenti di corte, dai quali esce provata ma vittoriosa: collocati all'indietro, al tempo dei fatti mitici narrati da Omero, e cantati nei modi e nello stile di Omero, quegli avvenimenti diverranno, appunto, l'Odissea.»
Dopo la lunga dissertazione mitologica, si pone finalmente l'attenzione sull'etimologia come scienza.
L'indagine sulle più remote origini raggiungibili di una forma linguistica - e la storia relativa a queste vicende - riguarda l'ambito della linguistica storica, nebulosa arcana per quanti non sono studiosi del settore (o "appassionati", il che poi è la stessa cosa dal punto di vista etimologico) ma che pure conoscono perfettamente il significato dei vocaboli nella lingua in uso.
La semantica - quale osservazione scientifica dei significati - potrebbe sembrare una disciplina più recente rispetto alle cosiddette etymologiae (raccolte enciclopediche di étimi, tra le quali è nota quella tardoantica di Isidoro da Siviglia), se un tale paragone non si prestasse a rigidi schematismi, dato che fin dall'antichità si dibattevano questioni di linguaggio e logica in grado di contribuire ai glossari (raccolte di glosse, termini linguistici, essendo glossa/glotta la parola greca per lingua).
Insomma, «fare etimologia» scientificamente è abbastanza arduo, trattandosi di un terreno scivoloso che, spesso, non lascia intravedere le radici più profonde oppure frana verso paretimologie, magari gradevoli (come il caso della liquirizia - per me amara - in cui si credeva di notare la presenza del greco glykys: dolce), ma pur sempre false etimologie.
Ad esempio non è difficile stabilire che il termine italiano istrione, per tramite latino, ci giunge dall'etrusco (a partire da Dionigi di Alicarnasso, contemporaneo dell'imperatore Augusto, la «questione etrusca» non cessa ancora di essere un mistero; anche se i moderni etruscologi, forti delle recenti decifrazioni, la ritengono una lingua pre-indoeuropea, ovvero appartenente al preesistente ceppo mediterraneo non indoeuropeo: non hanno prestato molta fede alla leggenda erodotea circa l'origine anatolica né si sono lasciati fuorviare dalla somiglianza con l'alfabeto greco, essendo diversa strutturalmente la base linguistica), tuttavia non è altrettanto facile rintracciare l'origine di altre parole del dizionario italiano; senza volermi addentrare in ricostruzioni linguistiche che si spingono fino all'epoca della mezzaluna fertile, mi sovviene un altro tipo d'esempio, talassemia, la terribile anemia mediterranea: vi si riconosce il termine greco thalassa (= mare) che, però, non è forma di origine indoeuropea.
Si ipotizza, infatti, che tribù discendenti da stirpi cosiddette indoeuropee (semplificando di molto vi appartengono micenei, achei) in diverse tappe siano calate da nord lungo la penisola balcanica, abbiano visto il mare per la prima volta e, non avendo un termine adatto per designarlo, più tardi abbiano preso in prestito quello originario della zona d'arrivo (sostrato mediterraneo).
Queste divagazioni spiegano come l'etimologia non sia una scienza a sé, avulsa da un contesto storico, bensì una ricerca puntigliosa a ritroso che può condurre a un significato diverso da quello contenuto nel significante in uso nella lingua corrente (basti ricordare il banale caso di galera, sinonimo odierno di prigione, che in origine indicava la galea dove erano impiegati come rematori i condannati a vita); quindi, se lo studio etimologico è utile a delineare l'evoluzione - e deriva - semantica, può essere rischioso destreggiarsi tra elementi autoctoni, sostrati, superstrati (e adstrati).
Del resto, neppure il significato preciso di un vocabolo attuale è sempre così immediato, al punto che, non di rado, è opportuno districarsi fra senso letterale o metaforico.
N.B. Un commento fulminante sulla metafora è contenuto nel breve romanzo di Mark Haddon, "Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte" (titolo originale: The Curious Incident of the Dog in the Night-Time): il giovane protagonista, affetto da una forma di autismo, spiega la sua difficoltà nel comprendere ciò che gli sembra un inutile sforzo semantico, quasi una bugia (non ho sottomano il libricino, quindi lascio l'onere della verifica ai volenterosi).
Un altro mito narra che Leda di Sparta, madre della famigerata Elena, fu amata e posseduta da Zeus nelle sembianze di cigno; potrebbe essere un simbolo della Grande Dea nel suo connubio con la natura selvatica: ne nasce, appunto, la bellezza invincibile e inarrivabile della vita a cui ogni essere umano tende.
Si tratta di una visione personale non suffragata da prove scientifiche, ma dalla sensibilità affine alle antiche pitture vascolari greche e alle rappresentazioni di Leonardo da Vinci.